QUANDO VIAGGIARE FA(CEVA) RIMA CON RISPETTO
Tra fatti di cronaca e aggiornamenti del calcio-mercato, l’estate 2016 ha portato alla ribalta mediatica un tema estremamente caro al settore del turismo: quello del rispetto. Tra l’ennesima denuncia sulle città d’arte trasformate da turisti stranieri in discariche acielo aperto e la denuncia più o meno velata contro i turisti italiani cafoni all’estero, è emerso anche un nuovo dibattito sul dress code delle donne in viaggio.
Ad aprirlo è stata la Francia, con il divieto di indossare il burkini in spiaggia. Oggi la rassegna stampa quotidiana ci rende partecipi dello sdegno suscitato dal Ministro della cultura indiano che invita le turiste straniere a non indossare la gonna e non andare in giro sole la sera perché “la cultura indiana è diversa da quella occidentale”.
Ho sempre pensato che il rispetto fosse un sentimento imprescindibile nel bagaglio di qualsiasi viaggiatore, una componente importante di quella sottile linea rossa che demarca la distanza tra viaggiatori e turisti. Un atteggiamento di apertura, ascolto, ma anche di attenzione nei confronti di un patrimonio – paesaggistico, culturale, umano –che deve essere capito e conservato per chi lo visiterà in futuro. Ma non solo:rispetto è anche l’umiltà di non imporre le proprie abitudini, usanze e credenze, l'intelligenza di seguire le regole locali e uniformarsi dove possibile. Sarà banale ma le diverse esperienze nel mondo mi hanno insegnato che rispetto è usare un cestino, coprire le spalle o la testa, osservare certi rituali a tavola o al momento delle presentazioni, togliere le scarpe. Anche se a volte il gesto sembra inutile o ridicolo, anche se non si condivide la stessa fede o cultura o semplicemente non se ne sente la necessità.
Oggi l’attualità ci spalanca una prospettiva nuova della questione: il rispetto è diventato soprattutto una questione tra un “noi”e un “voi”, i ruoli tra “ospite” e “ospitato” si confondono, l’osservanza di alcune regole diventa imposizione. E lo spettro della sicurezza discrimina tra ciò che è lecito e illecito, tra ciò che è consentito e ciò che è vietato.
Può non piacere ma ci sono donne che il burka lo indossano per scelta, per cultura, per compiacenza o quieto vivere: è giusto imporre loro di venire meno a una convinzione o credenza, in nome del rispetto della civiltà occidentale? E poi ci sono donne che amano viaggiare, anche da sole, anche fuori dalle rotte del turismo di massa e vorrebbero che la propria libertà di farlo venisse rispettata: è giusto imporre loro abiti e coprifuoco, chiedendo rispetto e comprensione per una cultura diversa dalla loro, legittimando implicitamente la mancanza di rispetto per il corpo femminile che la contraddistingue?
Il dibattito è complesso, di non facile soluzione e di sicuro ancora aperto: una nuova sfida che il mondo stesso del turismo dovrebbe affrontare con apertura, intelligenza, e senza dubbio rispetto.
Chiara Borghi